Deficit di vitamina D, solo un marker di malattia?



La presenza di bassi livelli di vitamina D (25[OH]D) potrebbe essere un marker biologico di un cattivo stato di salute, caratterizzato da disturbi che portano, tra le altre conseguenze, a una riduzione delle concentrazioni di questa vitamina. È una delle ipotesi formulate dai ricercatori per spiegare i risultati contrastanti di un lavoro appena pubblicato su Lancet Diabetes Endocrinology: una revisione sistematica e metanalisi sugli effetti extra-scheletrici della vitamina D nell’adulto.

Diversi studi ecologici ed osservazionali hanno evidenziato associazioni tra basse concentrazioni di 25(OH)D e aumento del rischio di decesso e di patologie non scheletriche, tra cui tumori, malattie cardiovascolari e disturbi neurodegenerativi. Tuttavia, scrivono gli autori nell’introduzione, non si sa se il deficit di vitamina D sia il risultato o la causa delle alterazioni fisiologiche alla base di tali patologie.

Nel tentativo di rispondere a questa domanda, i ricercatori (guidati da Philippe Autier, dell’International Prevention Research Institute di Lione, in Francia) hanno cercato in letteratura studi osservazionali e di intervento in cui si erano valutati gli effetti delle concentrazioni di 25(OH)D su outcome non scheletrici in soggetti al di sopra dei 18 anni.

Hanno così identificato 290 studi prospettici di coorte (di cui 279 sull’incidenza di malattie o sulla mortalità e 11 sulla sopravvivenza dai tumori) e 172 studi randomizzati controllati (studi di intervento), nei quali si è valutato l’effetto della supplementazione di vitamina D su outcome di rilievo e su parametri fisiologici correlati al rischio di malattia o al grado di infiammazione.

Purtroppo il lavoro non fornisce una risposta netta e conclusiva al quesito di partenza. I risultati sono, infatti, contrastanti, in quanto gli studi prospettici e quelli randomizzati giungono a conclusioni diverse. La maggior parte dei primi mostra una forte o moderata associazione inversa tra i livelli di vitamina D e molte malattie croniche e acute (malattie cardiovascolari, alterazioni del profilo lipidico, disturbi del metabolismo del glucosio, incremento ponderale, infiammazione, malattie infettive, sclerosi multipla, disturbi dell’umore, declino cognitivo, declino della funzionalità fisica) nonché la mortalità dovuta a qualunque causa. I secondi, invece, non evidenziano alcun effetto della supplementazione vitaminica su questi stessi disturbi.

Un discorso a parte meritano i tumori. Gli studi osservazionali non suggeriscono la presenza di un effetto protettivo di valori elevati di 25(OH)D nei confronti del cancro, tranne che per quello del colon-retto. Tuttavia, quest’ultima associazione non sembra essere smentita dagli studi di intervento. Due ampi studi randomizzati, infatti, non hanno fornito alcuna evidenza che la supplementazione con la vitamina possa ridurre l’incidenza di questo tumore.

Un altro dato rilevante, e positivo, è che negli studi di intervento l’assunzione di vitamina D a dosaggio moderato (20 mcg/die) nelle persone anziane, per lo più donne, ha mostrato di ridurre la mortalità. “La leggera riduzione della mortalità dovuta a qualunque causa osservata nei trial con dosi moderate di vitamina D sembra essere un risultato robusto” scrivono Autier e i suoi colleghi nella discussione.

Come leggere questi risultati? Gli stessi autori riconoscono che il loro studio presenta alcune limitazioni e non offre risposte conclusive ai quesiti aperti, per cui si limitano a proporre alcune ipotesi che potrebbero spiegare le discrepanze tra i risultati degli studi osservazionali e di quelli randomizzati.
Tra i vari limiti, vi sono il fatto che gli studi di intervento erano di qualità variabile, ma la valutazione della qualità degli stessi, scrivono i ricercatori, non è stata fatta perché andava al di là degli scopi della metanalisi.
Inoltre, è da segnalare che la metanalisi degli studi randomizzati mostra molti risultati nulli. Ciò, secondo gli autori, potrebbe essere dovuto a ragioni diverse, tra cui l’inclusione nei trial di pazienti che non presentavano un’ipovitaminosi D, l’impiego di dosaggi troppo bassi di vitamina o una durata della supplementazione troppo breve.

Per spiegare i loro risultati, gli autori ipotizzano comunque che la carenza di vitamina D sia essenzialmente un effetto, e non la causa, della malattia. Inoltre, i ricercatori puntano il dito contro i processi infiammatori coinvolti nell’insorgenza e nella progressione della patologia come causa dell’ipovitaminosi D, il che spiegherebbe come mai bassi livelli di vitamina D sono un tratto comune di una vasta gamma di disturbi.

A detta degli stessi autori, tuttavia, la validità di queste ipotesi va testata in trial clinici di ampie dimensioni. Attualmente ne sono in corso cinque che coinvolgono da 2150 a 20.000 pazienti al di sopra dei 50 anni, in cui si sta valutando se la somministrazione di vitamina D a dosaggi compresi tra 40 e 80 mcg/die possa ridurre il rischio di cancro, malattie cardiovascolari, diabete, infezioni, declino cognitivo e fratture. I primi risultati, tuttavia, non saranno disponibili prima del 2017.

Studi su vasta scala e metodologicamente corretti, oltre che evidenziare gli effetti extra-scheletrici della vitamina D, permetteranno anche di acquisire nuove informazioni sui meccanismi d’azione della vitamina, che potranno essere d’aiuto nell’interpretare i risultati finora ottenuti.

Philippe Autier , Mathieu Boniol , Cécile Pizot , Patrick Mullie Vitamin D status and ill health: a systematic review The Lancet Diabetes & Endocrinology, Volume 2, Issue 1, Pages 76 – 89, January 2014 doi:10.1016/S2213-8587(13)70165-7Cite or Link Using DOI
leggi
http://www.thelancet.com/journals/landia/article/PIIS2213-8587%2813%2970165-7/abstract