La carenza di Vitamina D nei malati Covid-19 sarebbe collegata alla necessità di terapia intensiva e a minori possibilità di sopravvivenza.
Al contrario, buoni livelli di vitamina D parrebbero correlati a un minore rischio di sviluppare gravi difficoltà respiratorie ed esiti letali in caso di infezione da SARS-Cov-2.
É quanto emerge da uno studio osservazionale italiano presentato l’11 settembre al congresso dell’American Society for Bone and Mineral Research (ASBMR).
Vitamina D: i dati evidenziano un suo possibile ruolo
Questa ricerca si inserisce in un dibattito acceso che vede come principale protagonista la vitamina D. Un crescente numero di evidenze e dati epidemiologici, infatti, suggeriscono un collegamento tra la gravità di Covid-19 e la sua prevalenza nelle aree caratterizzate da insufficienza di vitamina D. I Paesi con livelli medi più bassi di vitamina D o una minore esposizione alle radiazioni UVB presentano infatti una più alta letalità dovuta alla patologia. Anche i gruppi demografici noti per essere a più alto rischio di carenza di vitamina D (come gli individui di colore, gli anziani, i residenti delle case di cura e quelli con obesità e diabete) sono ad alto rischio di ospedalizzazione e mortalità per questa infezione.
Lo studio
In questa ricerca, presentata al congresso da Luigi Gennari, del Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Neuroscienze dell’Università di Siena, sono state studiate l’associazione tra i livelli di 25-idrossivitamina D (25OHD) e la gravità e la mortalità di Covid-19. I ricercatori hanno esaminato prospetticamente 103 pazienti (di età media di 66,1 anni) ricoverati in ospedale per Covid-19 sintomatica e 52 persone con sintomi lievi che non hanno avuto disfunzioni respiratorie. I valori di vitamina D dei partecipanti malati sono stati confrontati con quelli di 206 controlli, di età e sesso paragonabili, che sono stati sottoposti a una misurazione di 25OH D nell’ambito di una visita di routine da gennaio a marzo.
Al momento del ricovero in ospedale, i livelli di 25OHD sono risultati inferiori nei pazienti con Covid-19 sintomatico (media, 18 ng/mL) rispetto a quelli con sintomi lievi (30,3 ng/mL) o ai controlli (25,4 ng/mL; p<0,0001 per entrambi i confronti) e sono stati inversamente associati ai livelli di interleuchina (IL)-6 (p=0,004).
Dopo il ricovero in ospedale, 54 pazienti con Covid-19 sintomatico sono stati ricoverati in terapia intensiva (ICU) a causa di una grave sindrome da distress respiratorio acuto. Questi pazienti avevano un livello di 25OHD inferiore (14,4 ng/mL) rispetto ai soggetti con Covid-19 sintomatico che non richiedevano il ricovero in terapia intensiva (22,4 ng/mL, p=0,0001) e livelli di IL-6 più alti (49,6 contro 28,8 pg/mL, p=0,016, rispettivamente).
Diciannove pazienti ricoverati in ospedale sono deceduti a causa della sindrome da distress respiratorio acuto, dopo una media di 19 giorni. Essi presentavano livelli di 25OHD inferiori (13,2 ng/mL) rispetto ai malati sopravvissuti (19,3 ng/mL, p=0,03) e livelli di IL-6 più alti (rispettivamente 61,0 contro 34,9 pg/mL, p=0,02).
“È interessante notare che i livelli di 25OHD sono stati inversamente associati sia alla sindrome da distress respiratorio acuto, che richiede il ricovero in terapia intensiva, sia alla mortalità, indipendentemente dai livelli di IL-6 e dalla presenza di comorbidità maggiori”, hanno scritto gli autori. “I nostri dati danno un forte supporto osservazionale ai precedenti suggerimenti che la riduzione dei livelli di vitamina D possa favorire la comparsa di gravi disfunzioni respiratorie e aumentare il rischio di mortalità nei pazienti affetti da COVID-19”.
Carenza di vitamina D: fattore di rischio indipendente per l’infezione severa da SARS-Cov-2
In conclusione, bassi livelli sierici di vitamina D rappresentano un fattore di rischio indipendente per la forma sintomatica di Covid-19 con disturbi respiratori che richiede il ricovero in terapia intensiva e che presenta minore probabilità di sopravvivenza.
I nuovi dati forniscono dunque un forte supporto osservazionale alle precedenti supposizioni secondo cui la riduzione dei livelli di vitamina D possa favorire la comparsa di gravi disfunzioni respiratorie e aumentare il rischio di mortalità nei soggetti con infezione da SARS-Cov-2. Quindi determinare i livelli di vitamina D (25 idrossivitamina D) nelle persone che risultano positive al test per l’infezione da SARS-Cov-2 potrebbe aiutare a prevedere il rischio che la malattia diventi grave. Va sottolineato, però, che, sebbene sappiamo da diversi studi che un basso livello di vitamina D è associato a un rischio più elevato di avere il Covid-19 in forma grave, tale la correlazione non ne prova la causalità. Saranno pertanto necessarie ulteriori ricerche per verificare se gli integratori di vitamina D possano prevenire il rischio di insufficienza respiratoria nei pazienti con infezione da SARS-Cov-2.
Nel frattempo, visto che i nuovi dati supportano molteplici risultati precedenti che suggeriscono che livelli più elevati di vitamina D siano associati a risultati migliori, l’uso di integratori per contrastare la carenza di vitamina D potrebbe essere di importanza per la riduzione del carico clinico dei focolai di infezione da SARS-CoV-2 in corso e futuri. Questo, soprattutto, nelle persone che non possono esporsi regolarmente al sole e nella stagione invernale, quando nella maggior parte dei paesi l’esposizione alle radiazioni solari ultraviolette-B (UVB) non permette alla pelle di sintetizzare la vitamina D.
Fonte
[1023] Vitamin D Deficiency Is Independently Associated with COVID-19 Severity and Mortality. Luigi Gennari. September 11. ASMBR 2020 Annual Meeting Virtual Event.
“Il prossimo inverno avremo in circolo meno scorte di vitamina D a causa del fatto che nel periodo del lockdown siamo stati meno esposti al sole. Quindi quest’anno i pediatri dovranno prestare più attenzione, perché è probabile che un maggior numero di bambini raggiunga una situazione di carenza che potrebbe poi dare problemi soprattutto a livello osseo, tanto negli adolescenti quanto nei bambini in età scolare”. A fotografare lo stato di salute degli italiani è Francesco Vierucci, pediatra della Struttura complessa di Pediatria dell’Ospedale San Luca di Lucca, che prenderà parte a ‘Napule è… pediatria preventiva e sociale’. La tre giorni di eventi, dal 18 al 20 settembre, dedicati alla prevenzione, allergologia, dermatologia, nutrizione e gastroenterologia in età pediatrica, e promossi dalla Società italiana di pediatria preventiva e sociale (SIPPS) in live streaming sulla piattaforma digitale Health Polis, iDea Congress.
‘Novità sulla profilassi con vitamina D: dalla mamma all’adolescente’ sarà il titolo dell’intervento che Vierucci terrà sabato 19 settembre insieme a Giuseppe Saggese, direttore responsabile di Ripps, la rivista ufficiale della SIPPS.
“Nel nostro Paese la sintesi cutanea di vitamina D diventa efficace da marzo, praticamente proprio nei tre mesi in cui quest’anno siamo stati chiusi in casa. Pertanto- spiega il medico- tutti i bambini che necessariamente sono stati meno esposti al sole meritano di fare la profilassi con vitamina D. Si tratta di una profilassi a dosaggi fisiologici giornalieri assolutamente raccomandati, per cui non è necessario andare a misurare il livello di vitamina D presente, a meno che non ci siano nei bambini dei sintomi carenziali clinici evidenti- puntualizza Vierucci- ma in questo caso è il medico a doverlo riscontare”.
VITAMINA D E CORONAVIRUS– Di vitamina D si è parlato molto anche nel periodo della pandemia perché si era ipotizzata una possibile relazione tra stato vitaminico e malattia da Covid-19. “Su questo punto i dati effettivamente disponibili sono pochi- precisa Vierucci- ci sono state, però, delle prese di posizione da parte di importanti società internazionali. Diciamo che al momento non si può ritenere che la profilassi con vitamina D possa essere una reale ed efficace strategia di prevenzione di Covid-19 o di trattamento della malattia. I pochi studi pubblicati- fa sapere il pediatra- suggeriscono un’associazione tra carenza grave di vitamina D e peggior risoluzione della malattia. Ma non è una relazione causa-effetto, è un’associazione”.
La cosa certa è che “lo stato vitaminico regola l’immunità- conclude Vierucci- dunque è assolutamente corretta l’indicazione di cercare di garantire a tutti i soggetti i fabbisogni giornalieri di vitamina D raccomandati per età”.
Intervista al Dott. Giuseppe Di Mauro, Pediatra, presidente Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS)
Intervista al Prof. Giuseppe Saggese, Già direttore della Cinica Pediatrica, Università degli Studi di Pisa
Belle giornate assolate rappresentano il coronamento di una vacanza, tuttavia per evitare le scottature è consigliato ricorrere alla crema solare: ma questa in quale modo ostacola il nostro organismo nel fare una salutare scorta di vitamina D?
Per rispondere a questo quesito e capire qual è la strategia per la migliore protezione è stato recentemente fatto uno studio ad hoc, pubblicato sul British Journal of Dermatology.
Da questo studio è emersa una novità importante: l’uso, se ottimale, della protezione solare, durante una vacanza al sole, non solo fa evitare le scottature ma permette comunque la sintesi della vitamina D.
Il sole: fonte di vitamina D ma anche di scottature
La luce del sole contiene radiazioni ultraviolette (UV)A e UVB. L’UVB è essenziale per la sintesi della vitamina D, ma è la principale causa di scottature e cancro della pelle. L’uso della protezione solare è raccomandato per ridurre gli effetti negativi del sole, ma può compromettere lo stato della vitamina D, essenziale per l’integrità scheletrica e associata a molti altri benefici per la salute. Come noto, infatti, la maggior parte della vitamina D (circa l’80%) è acquisita dall’esposizione solare.
Le radiazioni UVB e UVA
La radiazione ultravioletta solare terrestre contiene UVB e UVA. La prima, sebbene sia presente in modo molto minore, è più dannosa sia per le scottature solari, che per il rischio oncologico. Tuttavia, è proprio quella che permette la sintesi cutanea della Vitamina D.
Gli spettri di azione (dipendenti dalla lunghezza d’onda) che causano l’eritema e permettono la produzione cutanea della vitamina D si sovrappongono notevolmente, all’interno della regione ultravioletta (UV)B.
Teoricamente, dunque, le schermature solari che inibiscono l’eritema dovrebbero anche inibire la sintesi della vitamina D.
La protezione è importante, ma deve essere fatta in modo corretto
Fino ad oggi, gli studi sugli effetti inibitori delle creme solari sulla sintesi della vitamina D hanno dato risultati contrastanti, forse, in parte, perché le persone in genere applicano la protezione solare in modo non ottimale.
Va premesso che il fattore di protezione solare (SPF) di una protezione solare è una misura quantitativa della sua capacità di inibire l’eritema.
Il nuovo studio ha evidenziato come le creme solari con un indice UV molto alto (fattore di protezione solare, SPF 15), applicate con uno spessore sufficiente a inibire le scottature solari durante una settimana di vacanza, paiono permettere ancora un miglioramento molto significativo della concentrazione di 25idrossivitamina D3 nel sangue.
Lo studio
L’impatto della protezione solare sullo stato della vitamina D è stato studiato durante una vacanza al sole di una settimana a Tenerife. Sono stati fatti confronti tra due formulazioni, ciascuna con un fattore di protezione solare (SPF) di 15. Il fattore di protezione UVA (PF) era basso in un caso e alto nell’altro.
Dai risultati è emerso che una protezione solare ad alto contenuto di UVA-PF consente una sintesi di vitamina D significativamente più elevata rispetto a una protezione solare a basso contenuto di UVA-PF perché la prima, per impostazione predefinita, trasmette più UVB della seconda.
La vitamina D potrebbe essere un prezioso alleato per le persone con diabete di tipo 2. La sua integrazione infatti può rallentare la progressione della malattia nei pazienti con diagnosi recente e in quelli con prediabete. È quanto emerge da uno studio recentemente pubblicato nell’European Journal of Endocrinology. I risultati suggeriscono infatti che l’integrazione ad alte dosi di vitamina D può migliorare il metabolismo del glucosio per aiutare a prevenire lo sviluppo e la progressione del diabete.
Il diabete
Il diabete è una malattia cronica caratterizzata da elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e dovuta a un’alterata quantità o funzionalità dell’insulina. Quest’ultimo è un ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno.
Quella di tipo 2 è la forma più comune, di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia, purtroppo sempre più diffusa. Può portare a gravi problemi di salute tra cui danni ai nervi, cecità e insufficienza renale.
Esistono dei fattori di rischio che possono portare a identificare le persone che maggiormente corrono il pericolo di svilupparlo, tra questi:
La vitamina D e il diabete
I bassi livelli di vitamina D sono stati associati in passato a un aumento del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.
Stranamente, alcuni studi non avevano riportato alcun miglioramento della funzione metabolica in caso di supplementazione. Tuttavia, va sottolineato che la validità dei risultati di queste ricerche spesso era limitata da un basso numero di partecipanti o da pazienti inizialmente sani o al contrario affetti da lungo tempo da diabete 2. Di conseguenza, in questo settore, sono necessari ulteriori approfondimenti.
Inoltre, cosa pensare quando si tratta di pazienti con diagnosi recente di diabete di tipo 2 o ad alto rischio di sviluppare questa condizione? Il nuovo studio si è dedicato proprio a loro, esaminando l’effetto dell’integrazione di vitamina D sul metabolismo del glucosio in questa categoria di persone.
Per valutare l’effetto di questa terapia, i marcatori della funzione insulinica e del metabolismo del glucosio sono stati misurati prima e dopo sei mesi di supplementazione di vitamina D ad alto dosaggio (circa 5-10 volte la dose raccomandata).
Dall’analisi dei risultati è emerso che l’integrazione con vitamina D ha migliorato significativamente l’azione dell’insulina nel tessuto muscolare dei partecipanti dopo sei mesi.
“La ragione per cui abbiamo visto miglioramenti nel metabolismo del glucosio in seguito all’integrazione di vitamina D nelle persone ad alto rischio di diabete, o con diabete appena diagnosticato, mentre altri studi non sono riusciti a dimostrare un effetto nelle persone con diabete di tipo 2 di lunga durata non è chiaro” spiega Claudia Gagnon, del dipartimento di medicina dell’Università di Laval (Canada), coautrice dello studio. “Questo potrebbe essere dovuto al fatto che i miglioramenti della funzione metabolica sono più difficili da rilevare in coloro che hanno una malattia da lungo tempo o che è necessario un periodo di trattamento più lungo per vederne i benefici”.
Nel futuro: altre ricerche ma anche maggiori speranze
Il diabete di tipo 2 e il prediabete di tipo 2 sono una preoccupazione crescente per la salute pubblica. Gli attuali risultati però sono promettenti, anche se sono consigliabili ulteriori studi per confermarli. In particolare, sarà interessante valutare se alcune tipologie di persone possono trarre maggiori benefici da questo intervento. Inoltre sarà indispensabile anche valutare la sicurezza dell’integrazione di vitamina D ad alte dosi a lungo termine. Si potrà per esempio valutare se ci sono singoli fattori clinici o genetici che influenzano il modo in cui le diverse persone rispondono all’integrazione di vitamina D e se l’effetto positivo sul metabolismo viene mantenuto a lungo termine.
Nell’attesa, ovviamente, gli autori dello studio consigliano di seguire le attuali raccomandazioni sull’integrazione di vitamina D.
I livelli ottimali di vitamina D possono variare per i diversi gruppi etnici e razziali. È quanto emerge da uno studio di ricercatori della Rutgers e della University of California, San Francisco, pubblicato sulla rivista Metabolism, Clinical and Experimental. Quando si raccomandano integratori di vitamina D, dunque, ogni singolo paziente andrebbe considerato come se avesse esigenze diverse. Basarsi su linee guida uguali per tutti non sarebbe quindi, secondo questo studio, sufficiente. Ecco perché sarebbe consigliabile valutare con attenzione i dosaggi da somministrare caso per caso, migliorando i test per i livelli di vitamina D attualmente disponibili. In caso di carenza di vitamina D, soprattutto se importante, meglio quindi evitare il fai da te e ricorrere a uno specialista.
Servono maggiore standardizzazione e studi più approfonditi
“Persistono le raccomandazioni, basate su studi precedenti, che utilizzano una serie di test diversi per i livelli di vitamina D. Non sorprendentemente, le linee guida attuali variano”, ha detto l’autore Sylvia Christakos, un professore della Rutgers New Jersey Medical School. “In particolare, non è chiaro se i livelli ottimali per la vitamina D siano gli stessi per i caucasici, i neri o gli asiatici”. Alcuni laboratori stanno implementando test migliori e si stanno facendo sforzi per standardizzare i risultati dei diversi centri.
La complessità della corretta supplementazione di vitamina D potrebbe essere maggiore di quanto si creda oggi
Lo studio dimostra che i livelli ottimali di calcio e vitamina D possono essere diversi per i diversi gruppi razziali, introducendo nuovi parametri nell’impostazione di una corretta supplementazione.
È noto, per esempio che sono più a rischio di carenza di vitamina D le persone con la pelle scura di origine africana, afro-caraibica e sud asiatica.
Queste nuove evidenze aggiungono complessità al difficile compito del medico che deve valutare il corretto dosaggio per gli integratori di vitamina D. Dallo studio, in particolare, è anche emerso che una maggiore integrazione di vitamina D non dà necessariamente migliori risultati, confermando studi precedenti e sottolineando l’importanza di ricerche più approfondite, mirate a comprendere come personalizzare al meglio la supplementazione di questo nutriente.
Il rapporto tra nonni e nipoti è prezioso per entrambi: mantiene giovani i primi e fa crescere sani i secondi. Può però anche essere un’occasione, per le persone anziane, di guadagnare in salute, per esempio facendo giochi che permettono di aumentare la scorta di vitamina D.
Un fattore importante, che unisce l’utile con il dilettevole. È noto, purtroppo, che gli anziani, soprattutto quelli che tendono ad essere più sedentari, presentino carenze di vitamine D.
Con il passare delle decadi la capacità di sintetizzare questo nutriente purtroppo diminuisce. Le persone di 70 anni producono quattro volte meno vitamina D di quelle giovani, in quanto la quantità prodotta dipende anche dallo spessore della pelle e quella degli anziani è più sottile. Ecco che i momenti ludici con i propri nipoti possono essere l’occasione per stare all’aria aperta e aumentare le scorte di questo nutriente. A seguire, alcune proposte di giochi “salutari”.
Il giardino delle fiabe
I nonni sanno raccontare favole meravigliose, la stessa storia della loro infanzia è per ogni nipote occasione di sognare e confrontarsi. In più possono anche svelare ai bimbi i momenti più particolari di quando i loro genitori erano piccoli, rinsaldando così il loro rapporto.
Perché non approfittare delle belle giornate per recarsi in un bel parco o in un posto significativo, per esempio dove hanno avuto luogo gli episodi raccontati? Stare all’aria aperta permetterà alla cute di esporsi al sole e di attivare la produzione di vitamina D.
Attori in erba
A tutti i bambini piace “far finta di” essere qualcun altro. Diventare i protagonisti di avventure incredibili. Con i loro nonni possono inventare recite e scenette da poter poi, la sera, mostrare a mamma e papà. Quale luogo migliore di un bel prato per fare le prove? Poi, se i più piccoli amano esibirsi in balletti, spettacoli o barzellette, i nonni, in genere, trovano delizioso assistervi.
L’inventa rime
Un altro bel gioco che può veder coinvolti nonni e nipoti al parco è l’inventa-rime. Si sceglie un argomento, magari qualcosa accaduto nella giornata e si inventa una filastrocca per raccontarlo. Ovviamente deve essere tutta in rime. Le risate sono assicurate!
I minestroni stregati
I piccoli amano la magia? Ecco che un bel giardino e un parco possono diventare la fonte di ogni possibile ingrediente magico. Un bel pentolino con un po’ dell’acqua della fontanella può essere riempito di bacche, foglie e fiori. La fantasia di tutti può trasformare ogni oggetto in qualcosa di speciale. Ecco così che una bacca di Tuia, sminuzzata, diventa, grazie al suo profumo balsamico, l’elisir del lungo respiro. I petali di una margherita possono diventare l’ingrediente di un filtro d’amore, e così via.
I giochi di creatività
Il parco, il bosco, ogni luogo all’aria aperta può offrire la materia prima per creare qualcosa di bello. Ecco che i nonni possono accompagnare i nipoti a raccogliere sassi piatti e tondi che, non appena tornati a casa possono essere trasformati, con pennello e colori, in tante facce di ogni genere. E perché non raccogliere le pigne più belle? A casa possono diventare per esempio gufi di mille colori diversi. Basta dipingerle con la vernice spray o con i pennelli. Disegnare gli occhi, il becco e le ali su un cartoncino, ritagliarli e attaccarli. La fantasia non ha limiti, così come l’amore che lega nonni e nipoti.
Nelle donne sottoposte a riproduzione assistita un corretto livello di vitamina D è collegato a migliori tassi di natalità.
Una recente meta-analisi, pubblicata su Human Reproduction, una delle principali riviste di medicina riproduttiva del mondo, evidenzia infatti un forte legame tra basse concentrazioni di vitamina D nelle donne e tassi di nati vivi dopo la PMA (procreazione medicalmente assistita) inferiori rispetto a quelli delle pazienti con adeguati livelli del nutriente.
Va sottolineato che questi risultati non significano automaticamente che la supplementazione migliori le possibilità di fare arrivare la cicogna, ma sottolinea l’associazione tra tasso di natalità e corretti livelli di vitamina D nel sangue. L’effetto benefico della correzione della carenza o dell’insufficienza di vitamina D dovrà invece essere testato eseguendo uno studio clinico ad hoc.
Nel frattempo, le donne che vogliono ottenere una gravidanza con la PMA devono affidarsi ai consigli dello specialista, evitando di correre in farmacia per acquistare integratori di vitamina D, a meno che non siano prescritti. Il fai da te può anche portare a un’overdose di vitamina D, che può causare un eccessivo accumulo di calcio nel corpo, con conseguenti indebolimenti delle ossa e danneggiamento di cuore e reni.
Lo studio
I ricercatori hanno analizzato i dati di 11 studi pubblicati che includevano 2.700 donne sottoposte PMA e il cui stato di vitamina D era stato controllato attraverso esami del sangue.
È emerso che le donne con i giusti livelli di questo nutriente avevano un terzo di probabilità in più di avere nati vivi.
Sono state considerate sufficienti le concentrazioni di vitamina D superiori a 75 nanomoli per litro di sangue (nmol/L), insufficienti quelle inferiori, carenti se con meno di 50 nmol/L.
Un risultato simile è stato visto quando i ricercatori hanno esaminato i risultati dei test di gravidanza e delle gravidanze cliniche (dove è stato possibile rilevare un battito cardiaco fetale). Rispetto alle donne che avevano concentrazioni di vitamina D carenti o insufficienti, le pazienti che ne avevano un livello sufficiente presentavano il 34% di probabilità in più di avere un test di gravidanza positivo e il 46% in più di ottenere una gravidanza clinica. Non sono state riscontrate associazioni tra aborto spontaneo e concentrazioni di vitamina D.
Una scoperta sorprendente è stata l’alta prevalenza di carenza di vitamina D tra le donne studiate: solo il 26% di loro aveva concentrazioni sufficienti del nutriente; nel 35% era carente e nel 45% insufficiente.
L’ipotesi è che la vitamina D possa influire in qualche modo sul successo dell’impianto embrionale nel grembo materno o che sia indice del benessere generale delle donne.
La parola rachitismo fa riaffiorare alla mente fotografie in bianco e nero, bimbi con calzoncini corti e bretelle, povertà estrema, piatti quasi vuoti e pance brontolanti: altre epoche insomma. Nulla di più illusorio. Si tratta, infatti, di una malattia presente ancora anche nei Paesi industrializzati. Questa patologia, tipica dell’età pediatrica, comporta conseguenze tutt’altro che secondarie, a cominciare da uno scarso accrescimento. Caratterizzato dalla carenza di vitamina D, il rachitismo carenziale è tuttavia prevenibile attraverso un corretto stile di vita.
Cosa è il rachitismo?
Il rachitismo è una malattia dovuta a una difettosa mineralizzazione delle ossa, che risultano più fragili e deformabili. La causa principale è la mancanza di calcio e/o di vitamina D. Si tratta di due carenze correlate: la vitamina D è coinvolta infatti nell’assorbimento del calcio a livello intestinale. Ne consegue una diminuzione del minerale nel sangue che, a sua volta, induce il riassorbimento a livello renale e dalle ossa. Ecco il perché della scarsa mineralizzazione ossea e della conseguente fragilità dello scheletro.
Esistono diverse forme di rachitismo, quella più comune è quella carenziale, caratterizzata appunto da un insufficiente apporto di vitamina D. Questo può essere dovuto a molteplici problematiche di salute (come per esempio malattie genetiche, renali, epatobiliari o intestinali) ma anche da errati stili di vita.
Gli errori negli stili di vita: quando la carenza di vitamina D è evitabile
Tra gli errati stili di vita, incidono particolarmente in modo negativo una insufficienza esposizione solare e la malnutrizione con scarsa assunzione di cibi che contengono calcio e vitamina D.
Il rachitismo dovuto a errori evitabili si verifica, infatti, prevalentemente per:
Va sottolineato, infine, che l’esposizione al sole deve essere diretta, se avviene dietro a un vetro non serve, e nemmeno se la cute viene protetta sempre da filtri solari.
Sole, alimentazione, stili di vita: per fare il pieno di vitamina D sono diverse le “corrette” abitudini da prendere.
Modificare le proprie consuetudini per migliorare la propria salute non è un sacrificio vano. I risultati sono apprezzabili sia lungo a che a breve termine. La carenza di questa vitamina può comportare infatti, negli anni, problemi a livello osteoarticolare, metabolico, cardiovascolare, immunitario e perfino, pare, oncologico. Non serve aspettare anni però per notare gli effetti negativi della ipovitaminosi D: stanchezza, aumento di peso, dolori articolari, ossa fragili, problemi intestinali, sudore alla testa e alle mani. Sono tutti campanelli di allarme a cui è importante prestare attenzione, oltre a essere chiaramente dei fastidi che limitano la qualità di vita.
Ecco alcuni consigli per fare il pieno di vitamina D in modo piacevole.
Esci all’aria aperta
L’esposizione solare è il principale metodo di approvvigionamento di vitamina D. I raggi del sole sulla cute, infatti, fanno sì che il 7-deidrocolesterolo, naturalmente presente nell’organismo, si trasformi in colecalciferolo, cioè la vitamina D3.
Va però ricordato che l’intensità della luminosità varia a seconda della latitudine, della stagione e dell’ora del giorno in cui ci espone.
L’esposizione ideale al sole di braccia, viso e gambe per la corretta produzione di vitamina D dovrebbe durare 15-20 minuti, per 4 giorni la settimana. Nella stagione fredda, quando il sole è meno intenso e gli abiti più coprenti, sarà necessario più tempo (almeno mezz’ora al giorno).
Importante, ovviamente, anche proteggersi dalle scottature. Il consiglio, è quello di esporsi in modo graduale, evitando le ore più calde della giornata. Quando necessario, è bene utilizzare una crema solare, tenendo però presente, in questo caso, che diminuisce l’efficacia dell’esposizione ai fini della sintesi di vitamina D.
Attenzione ai chili di troppo
Il sovrappeso, o peggio l’obesità, mettono a rischio la salute generale dell’organismo.
Quello che non in molti sanno è che, a parità di esposizione solare, nelle persone obese circola meno vitamina D perché essa tende ad essere immagazzinata nel tessuto adiposo. Di conseguenza in presenza di chili di troppo consultare il medico per verificare se si è a rischio di carenza.
A ogni età la sua esposizione
Nelle diverse età le persone hanno diversi bisogni di vitamina D. L’anziano per esempio deve esporsi al sole più a lungo della persona giovane per produrre lo stesso quantitativo del nutriente.
Segui la dieta salva-ossa
La dieta fornisce in media il 20% del fabbisogno di vitamina D. In una società dove però il tempo all’aria aperte è sempre più limitato, l’alimentazione diventa una fonte da non sottovalutare di questo nutriente. Vanno privilegiati dunque cibi ricchi di vitamina D, come il pesce – in particolare, il salmone, lo sgombro, il tonno e le sardine – oltre al ben noto olio di fegato di merluzzo, ai latticini e al tuorlo d’uovo.
Integra, quando serve
Il medico sarà in grado di consigliare come comportarsi in quelle situazioni nelle quali è necessario un maggior apporto di vitamina D.
La vitamina D presenta numerose proprietà, è noto, ma non tutti sanno che livelli più alti di questo nutriente potrebbero ridurre il rischio di cancro al seno.
Secondo uno studio pubblicato su PLoS One, in particolare, concentrazioni di vitamina D di 60 ng/mL o superiori nel plasma sanguigno ridurrebbero significativamente il rischio di tumore alla mammella tra le donne in menopausa.
Tumore alla mammella: una patologia purtroppo comune per le donne
Il cancro al seno rappresenta il più comune tumore nelle donne. Il rischio di svilupparlo, nell’arco della vita media, è estremamente alto: riguarda infatti, in teoria, 1 donna su 8 (Dati AIOM 2018). Per tradurre questo dato statistico nella realtà concreta, basti pensare che, nel 2018, in Italia sono stati diagnosticati 52 300 nuovi casi di tumore della mammella, pari al 14% di tutti i tumori maligni incidenti totali e al 30% nel solo sesso femminile.
L’identificazione e l’attuazione di efficaci strategie di prevenzione primaria è fondamentale, perché potrebbero ridurre i tassi di incidenza.
Il ruolo della vitamina D nel tumore al seno
Il recettore della vitamina D, in particolare della sua forma 1,25 D, è presente sia nella ghiandola mammaria sia nelle cellule del tumore mammario. Il legame della vitamina D con tale suo recettore regola il normale sviluppo della ghiandola mammaria e la sua sensibilità alla cancerogenesi.
La vitamina D, tra le altre cose, è implicata in meccanismi che sopprimono l’attività proliferativa e che inibiscono l’effetto anti-apoptotico, cioé quella capacità delle cellule tumorali di sopravvivere di più di quelle sane. In particolare, il complesso recettore-vitamina D inibisce, nelle cellule di tumore mammario, il ciclo cellulare (cioé la replicazione delle cellule maligne), e attiva l’apoptosi cioé il suicidio programmato della cellula), l’autofagia (meccanismo di rimozione selettiva di componenti cellulari danneggiati) e la differenziazione.
Si tratta di vantaggi molto importanti, ma non sono i soli. L’attivazione del recettore pare in grado di proteggere le cellule dal danno del DNA, inoltre attiva il sistema immunitario e sopprime l’infiammazione, l’angiogenesi e la formazione di metastasi.
In pratica agisce con meccanismi che possono portare in una ridotta trasformazione neoplastica delle cellule.
Si è notato, infine, che la carenza di vitamina D è comune nelle pazienti con tumore al seno e che il suo deficit è associato a un maggiore rischio di sviluppo e progressione della malattia.
La vitamina D ha un ruolo importante per la salute delle ossa, ma non solo: agisce favorendo la funzione muscolare, del cuore, dei polmoni, lo sviluppo del cervello e aiuta il sistema immunitario a proteggerci dalle infezioni.
Cosa succede se il nostro organismo è carente di vitamina D? Quando la vitamina D non è sufficiente, il nostro corpo ci manda dei segnali per farci capire che qualche cosa non va. Questi segnali non andrebbero sottovalutati, ma approfonditi e valutati con attenzione insieme al medico.
Ecco 5 sintomi che potrebbero far pensare a una carenza di vitamina D:
Stanchezza
Se ci si sente spesso stanchi, deboli e depressi è probabile che si abbia una carenza di vitamina D. La serotonina, l’ormone associato al buon umore, aumenta con l’esposizione alla luce e regredisce quando l’esposizione al sole diminuisce. Tra i sintomi di scarsa vitamina D c’è anche una tendenza all’irritabilità nervosa.
Peso corporeo elevato
Una persona in sovrappeso o obesa ha una maggiore necessità di vitamina D rispetto al fabbisogno di un normopeso, pertanto in caso di peso elevato le probabilità di carenza sono maggiori.
Dolori articolari e ossa fragili
Il ruolo principale della vitamina D è quello di assicurare l’assorbimento intestinale di calcio e fosfato, che svolgono un ruolo chiave per la salute di articolazioni, muscoli, denti e ossa, prevenendo l’osteoporosi. Le persone con bassi livelli di vitamina D possono presentare quindi dolori articolari e un rischio superiore di osteoporosi e quindi di fratture da fragilità
Problemi intestinali
Il deficit di vitamina D è molto probabile nelle persone con patologie intestinali che danneggiano l’assorbimento dei grassi. Questo perché la vitamina D è liposolubile e viene dunque assorbita attraverso i grassi.
Sudore alla testa e alle mani
Solitamente si inizia a sudare quando la temperatura corporea sale al di sopra di una certa soglia. Il più delle volte si tratta di una reazione normale. Tuttavia, un’eccessiva sudorazione può anche indicare una carenza di vitamina D, soprattutto se a sudare sono principalmente la testa e le mani.
Le maggiori dimensioni del girovita sono legate a un maggiore rischio di carenza di vitamina D
Secondo la Società Europea di Endocrinologia, infatti, negli individui obesi, livelli più alti di grasso viscerale sono associati a concentrazioni inferiori di vitamina D.
Ecco perché i soggetti in sovrappeso con girovita maggiore dovrebbero far controllare i loro livelli di vitamina D, per evitare qualsiasi effetto potenzialmente dannoso per la salute.
In questo studio, i ricercatori hanno esaminato come la quantità di grasso corporeo totale e di grasso addominale in persone con obesità si collega ai loro livelli di vitamina D. Dopo aver valutato ed eliminato una serie di possibili fattori in grado potenzialmente di influenzare i risultati – tra cui le malattie croniche, l’assunzione di alcol e i livelli di attività fisica – hanno scoperto che le quantità di grasso totale e addominale erano associate a livelli di vitamina D più bassi nelle donne, anche se il grasso addominale aveva un impatto maggiore. Negli uomini il grasso addominale e quello del fegato sono stati associati a livelli più bassi di vitamina D. In tutti i casi, maggiore è la quantità di grasso addominale, più bassi sono i livelli di vitamina D rilevati.
La forte relazione tra l’aumento della quantità di grasso addominale e i livelli più bassi di vitamina D suggeriscono, secondo gli autori dello studio, che gli individui con girovita più grandi siano a maggiore rischio di sviluppare una carenza e dovrebbero considerare di far controllare i loro livelli di vitamina D.
I prossimi passi della ricerca
Il prossimo passo sarà quello di indagare su ciò che può essere alla base di questa forte associazione tra i livelli di vitamina D e l’obesità: se da un lato è possibile che una mancanza di vitamina D predisponga gli individui a conservare il grasso, dall’altro può invece verificarsi che l’aumento dei livelli di grasso portino al calo di quelli del nutriente studiato.
Per ora va sottolineata la natura osservazionale dello studio svolto, che permette solo di sottolineare un ruolo particolarmente importante, in questo ambito, del grasso viscerale.
Vitamina D e obesità: un nuovo studio ha mostrato che, nelle persone con elevato BMI, un recettore di questo nutriente sembra essere coinvolto nell’eccesso di grasso epatico, e non solo. È quanto emerge dai risultati di una ricerca firmata da giovani ricercatori della Società Italiana di Diabetologia, presentata al 55° Congresso annuale dell’EASD, a Barcellona. In particolare, si è visto che, negli obesi, il recettore della vitamina D (VDR) potrebbe avere un ruolo nella regolazione della risposta infiammatoria del tessuto adiposo e nell’eccessivo accumulo di grasso nel fegato.
La steatosi epatica
La steatosi epatica (anche detta fegato grasso) è determinata da un accumulo anomalo di alcuni grassi (trigliceridi) nelle cellule epatiche. Può insorgere in seguito a consumo di alcool e/o a sindrome metabolica (sovrappeso, eccesso di trigliceridi e colesterolo nel sangue, insulino-resistenza). Può causare debolezza e malessere oppure essere asintomatica, non per questo va sottovalutata. A lungo andare, infatti, può sfociare in fibrosi e cirrosi epatica.
Il legame tra vitamina D e steatosi epatica
La vitamina D svolge un ruolo importante in diversi processi metabolici e infiammatori.
In caso di insulino-resistenza, inoltre, si è vista una stretta associazione tra ridotti livelli circolanti nel sangue di vitamina D e sindrome metabolica, diabete di tipo 2 e steatosi epatica.
I risultati di questo studio suggeriscono inoltre che, nelle persone obese, la vitamina D e il suo recettore possano essere coinvolte anche nei meccanismi che regolano l’accumulo di grasso nei vari tessuti del corpo. Questo nutriente e il suo recettore potrebbero rappresentare dunque un importante mediatore di malattia metabolica, regolando l’accumulo di grasso e la risposta infiammatoria. In futuro, questa nuova informazione potrebbe aprire le porte a un nuovo potenziale bersaglio terapeutico.
Per molto tempo si è pensato che la vitamina D fosse responsabile solo del metabolismo osseo. In realtà, il recettore per la vitamina D è presente su quasi tutte le cellule del nostro organismo ed è particolarmente espresso sulle cellule del sistema immunitario.
La vitamina D modula la risposta immunitaria ed è implicata nella riduzione delle allergie, protegge contro le infezioni e ha un effetto di prevenzione nei confronti delle malattie autoimmuni.
“E’ importante somministrare la vitamina D anche per il suo ruolo di modulatore della risposta immunitaria”, ha spiegato Attilio Boner, già Ordinario di Pediatria, Università degli Studi di Verona, in occasione del Convegno “Napule è” della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS).
Come spiega Boner, la vitamina D è raccomandata durante il primo anno di vita del bambino. Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nei primi 12 mesi i bambini hanno livelli pressoché ottimali di vitamina D, ma tali valori si riducono successivamente quando la supplementazione di vitamina D non è più raccomandata. Quando il bambino va all’asilo o è a scuola è più a rischio di contrarre infezioni delle vie respiratorie, di sviluppare dermatite atopica o altre patologie correlate al sistema immunitario. E’ proprio in questi periodi che è necessario avere valori ottimali di vitamina D, per ridurre il rischio di sviluppare queste patologie.
Anche per quanto riguarda la massa ossea, gli studi dimostrano che il picco si acquisisce durante i primi 14 anni di vita di un individuo. Ora i bambini e gli adolescenti tendono a rimanere più ore chiusi in casa a guardare la televisione o a giocare con i videogiochi, esponendosi poco alla luce solare. La maggior parte dei nostri adolescenti è carente di vitamina D e questi si ripercuote sulle sulla salute dell’osso in età più avanzata.
E’ quindi necessario valutare lo stato vitaminico D anche durante l’adolescenza ed eventualmente pensare alla supplementazione per avere minori problemi da adulti a livello scheletrico.
Secondo Boner, “le dosi raccomandate di vitamina D nel primo anno di vita sono di 400 unità internazionali al giorno, ma si può arrivare fino a 1.000-1.500 unità internazionali al giorno senza avere effetti collaterali. Dal secondo anno di vita in poi si raccomandano 600 unità internazionali al giorno, ma si può arrivare a 2mila-3.500 unità al giorno e in alcuni casi anche a 4mila unità senza avere problemi di sicurezza. In passato sono stati registrati casi di nefrocalcinosi, ma questi riguardavano lattanti a cui erano state somministrate 800mila unità per via intramuscolare. Con i dosaggi attuali non ci sono rischi”, spiega l’esperto.
Il calcio è un componente fondamentale delle ossa della mamma e del feto ed è necessario per numerose funzioni fisiologiche. Questo minerale contribuisce a veicolare i messaggi all’interno e all’esterno delle cellule, aiuta i muscoli a contrarsi e contribuisce a mantenere i valori pressori nella norma. Inoltre, il calcio contenuto nei denti e nello scheletro funge da riserva nei periodi in cui il corpo ne richiede maggiori quantità, come in gravidanza.
La vitamina D è un’altra sostanza preziosa per la mamma e per il benessere del nascituro. Questa vitamina sembra avere un ruolo protettivo nei confronti del diabete gestazionale e della preeclampsia, inoltre, svolge un ruolo importante per l’assorbimento di alcuni elementi come il calcio e il fosforo ed è quindi indispensabile per una corretta mineralizzazione dello scheletro del feto.
Quali rischi legati alla carenza ci sono per il feto e il neonato?
La carenza di calcio durante la gravidanza mette a rischio la salute dell’osso del bambino e complica l’andamento della gravidanza, con conseguenze importanti per il feto.
La mancanza di vitamina D, combinata a quella di calcio durante la gravidanza e, soprattutto, durante l’allattamento, è responsabile del rachitismo, che sta tornando a manifestarsi anche nel nostro Paese.
Quanto calcio e vitamina D servono in gravidanza?
L’Istituto di Medicina raccomanda 1.000 mg di calcio al giorno nelle donne gravide e in allattamento. Per quanto riguarda la vitamina D, si considerano normali valori pari a 20-30 nanogrammi/ml. La dose raccomandata di vitamina D in gravidanza è di 600 UI al giorno, pari a 15 microgrammi al giorno.
Quando è necessario integrare?
Il calcio va integrato nelle donne che non assumono le quantità giornaliere consigliate attraverso la dieta, come quelle intolleranti a latte e latticini.
L’utilizzo di integratori di vitamina D è consigliato nelle donne a rischio di carenza come quelle con la pelle scura o che per motivi culturali tendono a coprirsi molto, oppure alle future mamme che si espongono raramente al sole o, ancora, a quelle che seguono un’alimentazione povera di vitamina D o che hanno problemi di obesità. Per le altre donne non esistono vere e proprie indicazioni, anche perché dovrebbero già assumere la dose di vitamina D normalmente contenuta nei comuni integratori multivitaminici prescritti in gravidanza (circa 400 UI).
A seguito della pubblicazione della Nota Aifa 69 che disciplina la rimborsabilità dei farmaci contenenti vitamina D, la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) ha prodotto un documento che ha lo scopo di facilitare la conoscenza e la comprensione delle nuove regole da parte dei medici di famiglia.
Il documento specifica come la Nota stia creando ai medici di famiglia diverse difficoltà di interpretazione per via della complessità dei casi previsti, e si propone di semplificarne l’uso nei casi di più frequente riscontro in medicina generale. Chiarisce inoltre che l’osteopenia è stata riconosciuta come una delle osteopatie citate genericamente nella Nota 69.
«Per prima cosa dobbiamo sottolineare che il documento riguarda la rimborsabilità e non l’appropriatezza della prescrizione, quindi è molto importante che tutti i colleghi comprendano che queste sono due cose diverse» ha commentato ai microfoni di PharmaStar la Dr.ssa Raffaella Michieli, Segretario nazionale della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie e Responsabile nazionale Area Salute Donna. «Con il documento abbiamo cercato di semplificare la nuova rivalutazione che dobbiamo effettuare sulle vecchie prescrizioni di vitamina D, che non sono poche. Solo a me ne arrivano una decina al giorno. Quindi approfittiamo della Nota per rivedere se è effettivamente necessario prescrivere la vitamina D in questi pazienti e se la prescrizione sia anche rimborsabile secondo le nuove disposizioni».
Rimborsabilità senza necessità di effettuare il dosaggio
La nota 96 prevede la rimborsabilità della vitamina D senza necessità di effettuare un dosaggio della 25(OH) D nel caso di:
«Sicuramente nella nota non si pensa alla medicina generale perché si parla di pazienti istituzionalizzati. In realtà anche i medici di famiglia hanno pazienti allettati, che magari sono a casa e quindi non sono istituzionalizzati, ma soffrono delle medesime problematiche» ha spiegato. «Il paziente istituzionalizzato è stato individuato perché è immobile e la mancanza di movimento peggiora la salute dell’osso, quindi è sicuramente necessaria un’integrazione con la vitamina D, ma non sono diversi dai nostri pazienti allettati nelle proprie abitazioni».
«Riguardo alle donne in gravidanza, che invece è proprio un caso tipico della medicina generale, forse eravamo meno attenti rispetto per esempio alle persone in menopausa o oltre i 65 anni, mentre in altri paesi europei questa è una pratica diffusa anche attraverso la nutrizione, dato che molti alimenti sono addizionati con vitamina D».
«Nel caso dei pazienti che hanno patologie dell’osso c’è un po’ di incertezza, perché il termine “osteopatie” usato nella nota vuol dire tutto e niente. L’osteoporosi viene diagnosticata tramite un esame ed è quindi facile da identificare, mentre osteopatia è un termine generico» ha spiegato Michieli. «Noi abbiamo voluto considerare tra queste principalmente l’osteopenia (riduzione della massa ossea che ha come conseguenze principali quelle dell’assottigliamento e dell’indebolimento delle ossa) quindi anche livelli non eccessivi di carenza di tessuto osseo, dal momento che si tratta di una condizione che è l’anticamera dell’osteoporosi ma soprattutto delle fratture in caso di caduta. Non dimentichiamo che si fratturano più le persone osteopeniche che non quelle osteoporotiche».
Il documento SIMG parla di integrazione, cosa si intende?
Gli integratori contenenti la vitamina D previsti nel documento sono tutte le formulazioni di colecalciferolo, con o senza sali di calcio, e il calcifediolo in capsule, mentre sono escluse tutte le formulazioni a base di calcitriolo, alfa calcidolo e calcifediolo in gocce, come anche le terapie a carico dei bambini/adolescenti poiché la Nota 96 è applicabile nei soggetti >18 anni
«Per i casi previsti dal documento, che sono casi patologici come le osteopenie e l’osteoporosi, la vitamina D è un farmaco e dobbiamo considerarlo non solo come tale, ma come un farmaco indispensabile in alcune situazioni. Una delle parti più importanti del documento prevede che, pur dosando prima i livelli di vitamina D, si debba sempre associare la somministrazione di vitamina D e calcio a una terapia con farmaci remineralizzanti» ha concluso Michieli. «Questa è una triade obbligata perché i remineralizzanti possano effettivamente avere l’efficacia che è stata riconosciuta nei trial attraverso la somministrazione contemporanea di tre farmaci. E in questo senso diventa farmaco anche il calcio, in quanto indispensabile per ottenere determinati risultati».
Bibliografia
SIMG – Guida alla Nota 96 AIFA