Vitamina D, nuove linee guida danno chiare indicazioni su come utilizzarla



Le nuove linee guida messe a punto dalla Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) hanno rivisto i valori ottimali di vitamina D nella popolazione generale e in quelle speciali, per quali soggetti è necessario effettuare il dosaggio dei livelli sierici e quali dosi utilizzare per la supplementazione nelle varie tipologie di pazienti.

«Le linee guida affrontano uno dei problemi più importanti che ha portato a una situazione difficile a livello internazionale, ossia la somministrazione diffusa e spesso inappropriata della vitamina D a tutta la popolazione, con relativi costi e rischio di effetti collaterali», ha spiegato ai microfoni di Pharmastar il Prof. Francesco Bertoldo, Responsabile Struttura Funzionale Malattie del Metabolismo Scheletrico e Minerale, Università degli Studi di Verona.

Valori ottimali di vitamina D

È stato definito il livello ottimale nella popolazione generale, intesa come popolazione sostanzialmente sana. Ora sono ritenuti accettabili livelli al di sopra dei 20 ng/ml (a fronte dei 30 ng/ml stabiliti nel documento precedente), quindi tutti i soggetti con valori compresi tra 20 e 30 ng/ml sono adesso considerati in condizione ottimale. Questo implica l’esclusione di questi pazienti dalla necessità di fare un qualunque tipo di supplementazione di vitamina D.

Riguardo invece alle popolazioni speciali, nelle nuove linee guida l’elenco dei soggetti definiti a rischio di ipovitaminosi si arricchisce di nuove categorie, come i pazienti vegani, oncologici, affetti da diabete di tipo 2, obesi e quanti sono candidati a una terapia per l’osteoporosi e per la protezione delle fratture. In questi gruppi i livelli ottimali sono più alti e vanno dai 30 ai 50 ng/ml.

Quando e a chi fare il test della vitamina D circolante

Non vi sono evidenze scientifiche a supporto della necessità di effettuare un dosaggio della vitamina D nella popolazione generale, dal momento che non ne deriverebbe alcun vantaggio ed evita di incorrere in supplementazioni inappropriate.

«In modo apparentemente paradossale, anche nella popolazione a rischio non è previsto il dosaggio. Essendo soggetti a rischio, e la definizione di rischio è clinica, in questi soggetti si dà per scontato che siano carenti, quindi per loro il dosaggio non porta nessun vantaggio e non servirà a determinare la dose da somministrare» ha chiarito il prof. Bertoldo.

Alcune situazioni specifiche come l’osteomalacia o l’iperparatiroidismo, per motivi diagnostici differenziali, prevedono invece il dosaggio dei livelli sierici di vitamina D. Anziché fare un dosaggio iniziale, sarà più utile effettuarlo dopo 3-6 mesi dall’inizio della supplementazione a scopo di monitoraggio, per verificare se i livelli di vitamina D sono arrivati a target o quando il paziente mantiene la sintomatologia nonostante il trattamento.

Supplementazione in caso di ipovitaminosi

È universalmente accettato che il tipo di vitamina D da somministrare è il colecalciferolo, ovvero la forma non attiva. Non c’è una dose standard adatta a tutti i pazienti, ma oscilla tra le 800 e le 1000 unità al giorno. Lo schema di somministrazione potrà essere indifferentemente giornaliero, settimanale o mensile, per periodi generalmente non superiori a 1,5 mesi ed evitando di utilizzare dosi singole superiori a 100mila unità.

«Unica eccezione è la dose detta “bolo da carico” nel caso in cui sia necessaria una rapida normalizzazione del paziente sintomatico con osteomalacia per risolvere rapidamente i sintomi o in previsione di farmaci antiriassorbitivi molto potenti come denosumab» ha aggiunto il Prof. Bertoldo. «Solo in questo caso si userà una dose che può essere di 5000 unità al giorno per 1-2 settimane oppure una dose da 100-150mila unità date una sola volta e seguite dalla dose di mantenimento».

Supplementazione nelle popolazioni speciali

Nella pratica clinica si affrontano condizioni particolari come i pazienti con insufficienza renale, nei quali spesso si pensa che sia necessario somministrare formulazioni attive come l’1,25-OH D. In realtà in questi soggetti si consiglia di utilizzare il colecalciferolo alla stessa posologia della popolazione generale, a meno che il paziente non sia nello stadio G4 in dialisi oppure in una condizione di iperparatiroidismo secondario non gestibile. Solo in questo caso si userà la forma attiva della vitamina.

«Nei pazienti con insufficienza epatica grave con malassorbimento importante o in corso di terapia con farmaci che interferiscono con il metabolismo della vitamina D, come il cortisone o gli anticonvulsivanti, è indicato l’impiego del calcifediolo in forma già idrossilata a livello epatico, che garantisce da un lato il superamento dell’ostacolo dell’ossidazione epatica e dall’altro un migliore assorbimento intestinale» ha concluso.